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Oji è il nome di una stazione della metropolitana di Tokyo. In Sicilia, ‘Oji’ si legge ‘oi’ – nel dialetto antico significa ‘oggi’. O meglio, significava, visto che i siciliani di oggi questa parola non la usano più.

Giuseppe Pulvirenti, fondatore e Art Director, racconta così la storia della nascita di Oji: prima la curiosa corrispondenza tra un termine giapponese moderno e una parola del dialetto siciliano antico, trovata per caso di ritorno da un viaggio in oriente; poi il disegno di progetti che aspirano al confronto con altre culture, ad una fusione inedita di idee, colori, atmosfere e materiali; infine l’incontro con Carlo Caruso Jr., co-fondatore, che per famiglia è legato ad una tradizione di ebanisti, ma per vocazione vorrebbe dar vita alla produzione di pezzi che rivoluzionino il concetto di classico. É una storia apparentemente surreale e contraddittoria, almeno quanto l’idea di battezzare un brand di design contemporaneo con un nome che richiama un concetto di modernità, ma è talmente arcaico da essere oramai parte di un passato di tradizioni popolari. In realtà, Oji ha un suo equilibrio perfetto: trova sostanza e coerenza nell’assoluta libertà espressiva, nell’armonia tra innovazione strutturale e concezione artigianale. La collezione Oji nasce dal vissuto dei suoi creatori: è il frutto del viaggio di chi si ricorda da dove viene, ma parte per liberarsi dai cliché sulle sue origini, sperimentare qualcosa di nuovo. E, alla fine, riportarlo a casa.